Il racconto, o meglio, l’intervista in questione è ispirata a
Fausto G., militare cieco coprotagonista del romanzo “Il Buio e il
Miele” di Giovanni Arpino. Fausto è un uomo brusco, sprezzante,
sboccato, quasi nichilista e a tratti prepotente, convinto della
piccolezza degli uomini. Beve perennemente da una piccola bottiglia
che porta con sé nel viaggio che lo condurrà da Torino a Napoli. Il
mondo a tinta unita in cui si muove è pieno dell’astio e della
rabbia, violenta e disperata, del personaggio, che culmina in
disprezzo per se stesso e in triste rassegnazione alla fine del
romanzo.
L’intervista racconta un ipotetico incontro tra Giovanni Arpino
e Fausto G.: Il primo è consapevole di
essere uno scrittore e il secondo sa di essere
un personaggio inventato.
[Fausto G. siede nella stanza.
Fuori, Napoli ruggisce in una cacofonia di voci e strilli e suoni e
onde del mare. ]
Arpino:
Buonasera Fausto, grazie per aver accettato l’intervista. “La
Stampa” sarà lieta di pubblicarla.
Fausto:
‘Sera. Posso chiamarla Ciccio? Li chiamo tutti così, anche quando
vogliono intervistarmi. Che cosa mi intervistano a fare poi, ché non
ho nulla da dire.
A:
Ciccio? Va bene, faccia pure. Allora io, se a lei non spiace,
comincio. Come ci si sente ad essere protagonisti di un libr…
[Fausto
interrompe Arpino]
F:
Scusa Ciccio, hai mica da accendere? Lo zippo è scarico.
A:
Certo. Certo, prenda.
[Arpino
fa accendere Fausto e poi riprende]
A:
Dicevo, come ci si sente ad essere protagonisti di un libro?
F
[soffiando il fumo]: Bella domanda Ciccio, sai che non ti so
rispondere? Letti forse, non ci si sente così? E importanti, quello
sicuro, puoi contarci. Ci si sente fottutamente importanti e si
comincia a strafare. Per esempio, io mica ci volevo andare fino a
Napoli, a me andava bene Torino, ma poi la storia come la mandi
avanti? Uno chiude il libro se ci sono sempre e solo io seduto in
poltrona a Torino a fumare e litigare col Barone. Povero Barone, non
ho avuto il coraggio di farmelo mandare qui, ma magari un giorno lo
faccio. Ci si sente quasi costretti a fare cose strane quando si è i
protagonisti di un libro; sì, costretti, come se ci fosse qualcuno
che ti obbliga ad agire in un certo modo. Tu Ciccio, non ti senti mai
così?
A:
Io di solito sono quello che obbliga.
F:
Cazzo, Ciccio, potevi dirlo prima. Magari quest’intervista la sto
facendo perché tu mi ci costringi e io nemmeno me ne accorgo.
A:
No, no, stavolta non sono io. Non creda che sarei venuto fino a
Napoli per incontrarla. Anzi, ad essere onesto lei non mi piace mica.
F:
E allora non potevi lasciarmi in fondo alla tua testa? Io mica te
l’ho chiesto di farmi vivere ‘sta vita.
A:
Le idee non si tengono nei cassetti della mente, sa? Se no diventano
come pesi, come lame che squarciano il cervello. Le idee nascono per
essere sviluppate, almeno in questo mondo. Su, continui per favore.
F:
È inquietante, lo sai?
[Fausto
si alza e si muove meticolosamente per la stanza, cercando la
bottiglia del whisky e il bicchiere. Si versa una dose generosa e la
butta giù prima di continuare, mentre Arpino lo guarda incuriosito]
F:
Anche adesso, mi sento come se ci fosse qualcosa di diverso, di
ancora meno naturale del solito. Come se ci fosse qualcun altro a
scrivermi. Non che importi davvero: alla fine, ad avere la penna che
traccia le linee della mia vita non sono mai io. La mia vita. Non è
che un insieme di pagine quindi, eh? Ciccio, Ciccio, questa cosa non
mi aveva mai colpito così tanto come ora. Come un pugile, come un
gol inferto agli azzurri ai mondiali. Più forte, forse. E sai, non
ci avevo mai fatto tanta attenzione, ma ora ci sto pensando ed è
inquietante: Sara - l’ultimo ricordo che ho con lei è su una
spiaggia, e l’altro Ciccio magari era ancora sul treno, ma dopo
quello non c’è più nulla, come se la mia mente avesse cancellato
ogni altra cosa. E stamattina mi sono svegliato e c’era l’idea
dell’intervista, e ricordo di aver acconsentito a farla, ma non
riesco ad andare più indietro di così. La cosa dei ricordi è
questa: o qui o alla spiaggia, oppure ad esagerare in un bar con
l’altro Ciccio, o in casa ad aspettare sempre l’altro Ciccio, ma
mica si va più indietro. Come se un più indietro non ci fosse, ed
il menù dei miei ricordi avesse soltanto queste portate. E la mia
vita, me l’hai appena confermato, è stata soltanto quella. Pagine.
E pure poche, un centinaio immagino, e per me sono state giorni. Io
ho respirato quei giorni e le loro sensazioni, le sigarette, il
whisky e persino quella donna, non mi ricordo nemmeno il nome. L’aria
di Napoli mi è entrata nelle narici e lì è rimasta, il proiettile
mi stava uccidendo, ho sprizzato sangue vero. Eppure ogni cosa, ogni
secondo che ricordo, è stato soltanto carta. In tante copie, spero,
ché almeno sia valsa qualcosa. Una vita di carta, che prospettiva!
io sono un’illusione, sono un ritratto. È una grossa crisi per un
personaggio scoprire d’esser ciò che è. La sensazione d’aver
fatto cose che non sono nella propria natura è strana, ma questa è
ancora peggio, sai? Io già lo sapevo d’esser niente, un niente a
guisa d’insopportabile cieco, ma così mi distruggi: io sono meno
di niente, meno del niente che sono tutti gli altri. I miei respiri
sono stati solo carta, la bomba che m’ha chiuso per sempre gli
occhi è stata solo carta. E quindi qual è il senso, Ciccio? Ché io
non l’ho ancora capito. Come ci si sente ad essere protagonisti di
un libro, mi hai chiesto. Bella domanda, ci sono tante risposte. Mi
sa che l’intervista si chiude con una domanda sola, ché c’è
stato molto da parlare.
[Arpino
tace a lungo prima di accendersi una sigaretta]
A:
È stata una bella intervista comunque, sa? Illuminante direi e
interessante di sicuro. Pagine, pagine stampate molte volte e
vendute. Pensi che la ricordano ancora a lei, capitano Fausto G., si
chiedono persino quale fosse il suo cognome. Chi fosse prima di
essere ciò che è stato nelle pagine che lei chiama tutta la sua
vita. Alla fine, Fausto, che ne sa che non siamo tutti pagine?
Cerchiamo almeno d’esser pagine che verranno ricordate.
Nessun commento:
Posta un commento