Aveva
lasciato aperte le portefinestre alla desolazione della stanza, pervasa di una
certa polverosa impressione d'abbandono fuori dal tempo e di trascuratezza che
poco si addiceva al gusto e alle abitudini dei padroni di casa.
Daisy
sedeva alla petineuse che Tom aveva
comprato a Parigi, il trucco disfatto, le labbra tumide per i morsi nervosi, i
capelli stropicciati fuggiti all’ordine uniforme e lustro delle sottili onde
Marcel nelle quali quello stesso pomeriggio l’acconciatrice aveva combinato con tanta cura i suoi capelli.
Ancora
portava la sottoveste di raso morbido del vestito che si era provata qualche
istante prima, un grazioso seppur terribilmente semplice abito d’organza color
lavanda con piccole applicazioni floreali che ora giaceva scomposto e a rovescio sulla stessa sedia sulla
quale sedeva.
Si
contorceva le mani in grembo osservando il pallido e stravolto riflesso nella
vezzosa cornice ovale dello specchio, combattuta tra un infantile desiderio di
autocompatimento e l’impulso di ricomporsi, il paradosso tra capriccio e
dignità sul quale tutta la sua esistenza aveva oscillato.
La collana di Tom.
Non
la trovava più.
Era
certamente per quello che d’improvviso aveva sentito quella strana pressione
all’altezza dello stomaco, ed ovviamente era scoppiata in lacrime perché era
sciocca.
Una
bella sciocca, per sua fortuna.
Eppure,
guardandosi ora in quello specchio, non vi individuava più alcun fascino. Una
creatura così miserabile non si sarebbe mai potuta definire bella o
affascinante. Una persona in lacrime non lo è mai. Solo Gatsby, quel folle di
Gatsby, aveva in passato avuto l’ardire di considerare la sua fragilità una
forma sopita di naturale fascino, come se piangere davanti a lui sopra le
vibranti sfumature delle sue camicie avesse permesso alla sua corolla di
schiudersi un altro poco per rivelare nuovi colori, la dolce e celata,
autentica essenza del nettare che scorreva in lei.
Ma
Gastby non l’amava, non l’amava affatto. Come avrebbe potuto? Ai suoi occhi lei
non era che una scintillante luce verde, un sogno dai contorni sfumati ed
inarrivabili.
Lui
non l’aveva mai amata, aveva semplicemente desiderato essere felice. Ma la
felicità gli era parsa così astratta ed effimera che aveva ben pensato di
scegliere Daisy Fay e poi Daisy Buchanan come incarnazione concreta e viva di
tutte le sue aspirazioni e dei suoi più dolci idilli.
Nemmeno
Tom l’aveva mai amata. Aveva semplicemente individuato qualcosa di bello ed
aveva desiderato farlo suo. Così come quell’altra donna, Myrtle, quella dal
petto squarciato. Non riusciva a ricordarla in altro modo, non aveva mai avuto
altra immagine di lei se non quella del suo cadavere riverso sulla strada. Le
era sempre apparsa in sogno come una donna dalla pelle cremisi, con il petto
aperto su una poltiglia mostruosa di viva carne ancora pulsante.
Non
aveva mai realmente provato rimorso per quel fatto ma solo un’irrequietezza trasognata, come se la
chiarezza delle immagini che la tormentavano fosse in qualche modo oscurata da
un forte impulso di esorcizzarne l’imponente presenza.
Di
tanto in tanto, quando era da sola, si concedeva di essere sincera quantomeno
con sé stessa. In cuor suo sapeva bene di non essere sciocca. Era solo
un’autentica parassita, così come lo era suo marito. Nessuno dei due era o
sarebbe mai stato capace d’amare. Si sarebbero sempre limitati a stare accanto
alle persone che per loro erano un piacevole intrattenimento. Poi, quando
sarebbero sorti i problemi, se ne sarebbero semplicemente andati o avrebbero
cercato altrove il diletto ed il piacere. Gatsby non era stato che una sciocca
parentesi, un gioco finito nell’idillio amoroso che lei e Tom avevano
riallestito come un grottesco spettacolo di burattini.
Ed
entrambi sapevano che era una farsa, che a nessuno importava realmente, che le
parole che si scambiavano erano rubate agli amanti che se le sussurravano a
fior di labbra nei caffè, animati da qualcosa di sconosciuto e dunque
spaventoso, che non era possibile provare ma quantomeno imitare, che Tom
cercava in altre donne ciò che da lei nemmeno osava più pretendere.
La
passione, quella era una buona imitatrice dell’amore.
Ma
Daisy non era nemmeno quello. Era un grazioso trofeo che era lieto di possedere
e che ogni tanto si ricordava di lucidare per esporlo alla mondanità in una
vetrina di cristallo.
Non
l’amava.
Gli
piaceva, questo era tutto.
E
quello che Gatsby aveva disperatamente desiderato era solo un ideale, non lei.
Lei
non era una luce verde, non era nemmeno un trofeo. Era un’incurante parassita
in cerca di piaceri facili destinata all’infelicità accanto ad un uomo che
voleva solo esporla, e non di certo perché fosse fiero di lei.
Per un attimo volse lo sguardo alle
portefinestre spalancate, al lino bianco delle tende che fluttuava fin quasi al
soffitto ornato come una torta, al blu profondo e liquido del cielo sgombro di
stelle, alla terrazza in fiore, ai mirti che ammiccavano alla luce lunare, ai
gelsomini notturni, alla bellezza, alla libertà, all’opprimente copiosità del
nulla e del tutto e si sentì quasi soffocare.
Si
sentì come doveva essersi sentito Gatsby osservando quella luce verde
lampeggiare così lontana da lui, così viva, così invitante, così distante…
Fuggire,
doveva fuggire!
Non
pensò a Tom, a Pammy, a Myrtle, a Gatsby. Pensò al cielo, al cielo che poteva
accoglierla e salvarla sotto il suo manto, che poteva celare la sua fuga. Pensò
alla libertà di non desiderare più nulla, di non inseguire più nulla, di non
incontrare più nessuno, di non poter più danneggiare nessuno, di non avere più
fantasmi…
Riecheggiava
ancora in lei quel pensiero quando si accorse di essersi alzata in piedi a
fronteggiare la frescura della sera.
Abbassò,
attonita, lo sguardo. Si era anche vestita.
Pareva
avesse scelto un vecchio abito, di raso verde, che brillava al lume pallido della
luna disegnando piccole pieghe di luce che parevano riaccendersi e spegnersi
ogni volta che il suo petto si alzava e si ritirava, ad ogni suo respiro.
Al
collo, sopra il palpito esitante, scintillavano le perle della collana del suo
sposo.
“Daisy!”
la voce di Tom, distante, dall’altra stanza.
Quello
era il suo ruolo. Quella la sua vita.
Daisy
Buchanan, incurante oca, moglie trofeo.
“Arrivo,
Tom” mormorò, e sentì il cuore precipitare nella consapevolezza che, ancora una
volta, lo avrebbe fatto davvero.
Prese
un ultimo respiro. La luce verde lampeggiò ancora sotto il suo sguardo.
Si
apriva il sipario.
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