martedì 16 maggio 2017

Il sogno di fuga di Daisy Buchanan


Aveva lasciato aperte le portefinestre alla desolazione della stanza, pervasa di una certa polverosa impressione d'abbandono fuori dal tempo e di trascuratezza che poco si addiceva al gusto e alle abitudini dei padroni di casa.

Daisy sedeva alla petineuse che Tom aveva comprato a Parigi, il trucco disfatto, le labbra tumide per i morsi nervosi, i capelli stropicciati fuggiti all’ordine uniforme e lustro delle sottili onde Marcel nelle quali quello stesso pomeriggio l’acconciatrice aveva combinato con tanta cura i suoi capelli.

Ancora portava la sottoveste di raso morbido del vestito che si era provata qualche istante prima, un grazioso seppur terribilmente semplice abito d’organza color lavanda con piccole applicazioni floreali che ora giaceva scomposto e a rovescio sulla stessa sedia sulla quale sedeva.

Si contorceva le mani in grembo osservando il pallido e stravolto riflesso nella vezzosa cornice ovale dello specchio, combattuta tra un infantile desiderio di autocompatimento e l’impulso di ricomporsi, il paradosso tra capriccio e dignità sul quale tutta la sua esistenza aveva oscillato.

     La collana di Tom.

Non la trovava più.

Era certamente per quello che d’improvviso aveva sentito quella strana pressione all’altezza dello stomaco, ed ovviamente era scoppiata in lacrime perché era sciocca.

Una bella sciocca, per sua fortuna.

Eppure, guardandosi ora in quello specchio, non vi individuava più alcun fascino. Una creatura così miserabile non si sarebbe mai potuta definire bella o affascinante. Una persona in lacrime non lo è mai. Solo Gatsby, quel folle di Gatsby, aveva in passato avuto l’ardire di considerare la sua fragilità una forma sopita di naturale fascino, come se piangere davanti a lui sopra le vibranti sfumature delle sue camicie avesse permesso alla sua corolla di schiudersi un altro poco per rivelare nuovi colori, la dolce e celata, autentica essenza del nettare che scorreva in lei.

Ma Gastby non l’amava, non l’amava affatto. Come avrebbe potuto? Ai suoi occhi lei non era che una scintillante luce verde, un sogno dai contorni sfumati ed inarrivabili.

Lui non l’aveva mai amata, aveva semplicemente desiderato essere felice. Ma la felicità gli era parsa così astratta ed effimera che aveva ben pensato di scegliere Daisy Fay e poi Daisy Buchanan come incarnazione concreta e viva di tutte le sue aspirazioni e dei suoi più dolci idilli.

Nemmeno Tom l’aveva mai amata. Aveva semplicemente individuato qualcosa di bello ed aveva desiderato farlo suo. Così come quell’altra donna, Myrtle, quella dal petto squarciato. Non riusciva a ricordarla in altro modo, non aveva mai avuto altra immagine di lei se non quella del suo cadavere riverso sulla strada. Le era sempre apparsa in sogno come una donna dalla pelle cremisi, con il petto aperto su una poltiglia mostruosa di viva carne ancora pulsante.

Non aveva mai realmente provato rimorso per quel fatto ma solo un’irrequietezza trasognata, come se la chiarezza delle immagini che la tormentavano fosse in qualche modo oscurata da un forte impulso di esorcizzarne l’imponente presenza.

Di tanto in tanto, quando era da sola, si concedeva di essere sincera quantomeno con sé stessa. In cuor suo sapeva bene di non essere sciocca. Era solo un’autentica parassita, così come lo era suo marito. Nessuno dei due era o sarebbe mai stato capace d’amare. Si sarebbero sempre limitati a stare accanto alle persone che per loro erano un piacevole intrattenimento. Poi, quando sarebbero sorti i problemi, se ne sarebbero semplicemente andati o avrebbero cercato altrove il diletto ed il piacere. Gatsby non era stato che una sciocca parentesi, un gioco finito nell’idillio amoroso che lei e Tom avevano riallestito come un grottesco spettacolo di burattini.

Ed entrambi sapevano che era una farsa, che a nessuno importava realmente, che le parole che si scambiavano erano rubate agli amanti che se le sussurravano a fior di labbra nei caffè, animati da qualcosa di sconosciuto e dunque spaventoso, che non era possibile provare ma quantomeno imitare, che Tom cercava in altre donne ciò che da lei nemmeno osava più pretendere.

La passione, quella era una buona imitatrice dell’amore.

Ma Daisy non era nemmeno quello. Era un grazioso trofeo che era lieto di possedere e che ogni tanto si ricordava di lucidare per esporlo alla mondanità in una vetrina di cristallo.

Non l’amava.

Gli piaceva, questo era tutto.

E quello che Gatsby aveva disperatamente desiderato era solo un ideale, non lei.

Lei non era una luce verde, non era nemmeno un trofeo. Era un’incurante parassita in cerca di piaceri facili destinata all’infelicità accanto ad un uomo che voleva solo esporla, e non di certo perché fosse fiero di lei.

     Per un attimo volse lo sguardo alle portefinestre spalancate, al lino bianco delle tende che fluttuava fin quasi al soffitto ornato come una torta, al blu profondo e liquido del cielo sgombro di stelle, alla terrazza in fiore, ai mirti che ammiccavano alla luce lunare, ai gelsomini notturni, alla bellezza, alla libertà, all’opprimente copiosità del nulla e del tutto e si sentì quasi soffocare.

Si sentì come doveva essersi sentito Gatsby osservando quella luce verde lampeggiare così lontana da lui, così viva, così invitante, così distante…

Fuggire, doveva fuggire!

Non pensò a Tom, a Pammy, a Myrtle, a Gatsby. Pensò al cielo, al cielo che poteva accoglierla e salvarla sotto il suo manto, che poteva celare la sua fuga. Pensò alla libertà di non desiderare più nulla, di non inseguire più nulla, di non incontrare più nessuno, di non poter più danneggiare nessuno, di non avere più fantasmi…

Riecheggiava ancora in lei quel pensiero quando si accorse di essersi alzata in piedi a fronteggiare la frescura della sera.

Abbassò, attonita, lo sguardo. Si era anche vestita.

Pareva avesse scelto un vecchio abito, di raso verde, che brillava al lume pallido della luna disegnando piccole pieghe di luce che parevano riaccendersi e spegnersi ogni volta che il suo petto si alzava e si ritirava, ad ogni suo respiro.

Al collo, sopra il palpito esitante, scintillavano le perle della collana del suo sposo.

“Daisy!” la voce di Tom, distante, dall’altra stanza.

Quello era il suo ruolo. Quella la sua vita.

Daisy Buchanan, incurante oca, moglie trofeo.

“Arrivo, Tom” mormorò, e sentì il cuore precipitare nella consapevolezza che, ancora una volta, lo avrebbe fatto davvero.

Prese un ultimo respiro. La luce verde lampeggiò ancora sotto il suo sguardo.

Si apriva il sipario.

Beatrice Messuti

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